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Come gli Stati Uniti continuano a rimbalzarmi (*)

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zanzisap
2098 days ago
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Alla canna del gas

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di Alexik

Domenica scorsa, in piena notte, il paese di Melendugno (LE) è stato messo in stato d’assedio per imporre manu militari la ripresa dei lavori del gasdotto TAP.
Un’ordinanza prefettizia ha consegnato per un mese intero l’abitato e le campagne all’arbitrio di un nutrito schieramento  di polizia e carabinieri.
Circondata la zona di San Basilio, sede del cantiere della Trans Adriatic Pipeline, sequestrati per 12 ore gli attivisti del presidio di protesta, ostruiti con alte cancellate gli accessi alle campagne circostanti, mentre le camionette sbarravano il transito verso la marina di San Foca, isolata dal resto del paese.
Impossibile raggiungere il cimitero nel mese dei morti, e gli uliveti carichi di frutti nel momento del raccolto. Posti di blocco ovunque fermavano chi andava al lavoro, i mezzi della nettezza urbana, e perfino lo scuolabus.
Non poteva passare nessuno, tranne i veicoli della multinazionale.

Il pretesto dell’ordinanza faceva riferimento alla ‘possibilità di infiltrazioni anarco-insurrezionaliste’, ma la rappresaglia è stata rivolta contro il paese intero, colpevole di essersi opposto alla grande opera strategica.
Ma strategica per chi?

La Trans Adriatic Pipeline (TAP) è la parte finale del ‘Corridoio Sud’, un gasdotto lungo quasi quattromila chilometri, che parte dal giacimento azero di Shah Deniz 2.
TAP è la prosecuzione della  South Caucasus Pipeline (SCP), il tratto dall’Azerbaigian alla Georgia, e della Trans Anatolian Pipeline (TANAP) – ancora in costruzione – che attraverserà la Turchia fino al confine greco di  Kipoi.
Da Kipoi la pipeline si snoderà lungo 878 chilometri. Toccherà la massima altitudine a 1800 metri tra i rilievi albanesi e la massima profondità a 820 metri sotto il livello del mare.


Se nessuno la ferma, approderà in Salento, a San Foca, rovinando una delle spiagge più belle del litorale e le attività umane (pesca, turismo) che garantiscono il reddito di chi ci vive.
Poi proseguirà a terra spiantando uliveti fino alla centrale di decompressione, circondata da torce inquinanti.
Torce a freddo che produrranno atmosfere esplosive: una bomba piazzata in mezzo ai 27.000 abitanti dei comuni di Melendugno, Vernole, Calimera e Castrì, ed a 800 metri dalle case più vicine.
La TAP avrà il suo termine a Melendugno, ma il gas continuerà la sua corsa, convogliato per  55 km (con l’espianto di altre migliaia di ulivi) fino a Brindisi per confluire nella costruenda Rete Adriatica SNAM.
La Rete Adriatica, che dovrebbe raccogliere anche il metano di altri due gasdotti (il Poseidon e l’Eagle LNG Terminal & Pipeline) risalirà la penisola per 687 km fino a Minerbio (BO), attraversando nel percorso zone altamente sismiche, già interessate dai disastrosi terremoti degli ultimi anni.
Per amplificare l’effetto del prossimo sisma la SNAM ha già previsto la costruzione di una bella centrale di compressione del gas presso Sulmona.
Oltre il nodo di Minerbio, il gas verrà canalizzato verso la Svizzera attraverso Passo Gries e verso l’Austria, a Tarvisio1.
Insomma è un gas da esportazione.

Che l’obiettivo non sia principalmente il mercato italiano è evidente, dato che i consumi nazionali (ben lungi da tornare ai livelli pre-crisi), si aggirano intorno ai 70 miliardi di m3 l’anno, mentre la capacità di importazione attraverso le infrastruttura già esistenti  raggiunge già ora i 140 miliardi di m3 l’anno.
I supporters del progetto sostengono che l’aumento dell’offerta del gas determinerà una diminuzione del prezzo a vantaggio dei consumatori, usando la stessa retorica che aveva accompagnato a suo tempo la costruzione di un’altra infrastruttura “strategica”, il rigassificatore Olt di Livorno.
Realizzato da privati, ma rimasto di fatto inutilizzato, il rigassificatore è stato soccorso da una sorta di assicurazione, finanziata dalle bollette, che copre gran parte dei mancati incassi in caso di inattività: nel 2015 ci è costato 83 milioni di euro.
Proprio un bel ‘vantaggio’ per i consumatori !
Le infrastrutture definite come ‘strategiche’ godono infatti del cd ‘fattore di garanzia’, che comporta che gli eventuali mancati incassi dei privati vengano risarciti attraverso un aumento della bolletta del gas.
Una misura rivendicata dal presidente della ‘Autorità per l’energia e il gas’ Guido Bortoni: “Le infrastrutture strategiche rispondono a un interesse generale: è giusto perciò che il loro costo sia in parte sostenuto anche nelle tariffe”.
Chissà se il fattore di garanzia’ verrà applicato anche a TAP e Rete Adriatica, in nome ‘dell’interesse generale’.
Ma, continuiamo a chiederci, l’interesse generale di chi ?

Dell’Europa che ha bisogno di gas‘, ci dicono.
Le stime di Gazprom e dell’ENI prevedono infatti una domanda europea di gas naturale in forte crescita: dai 478 miliardi di m3 del 2014 ai 632 del 20352.
Ma … l’interesse generale che ci viene sbandierato ad ogni nuova conferenza sul clima, non dovrebbe consistere nell’abbandono dei combustibili fossili per scongiurare l’irreversibilità del riscaldamento globale ?
Con estrema naturalezza, i rappresentanti dei governi delle potenze industriali fingono periodicamente di interessarsi al contrasto dei cambiamenti climatici, proprio mentre rinforzano le politiche energetiche che li determinano.
Non pagheranno loro il prezzo delle inondazioni, della siccità, della desertificazione, dello scioglimento dei ghiacciai, dall’innalzamento degli oceani, dei conflitti e delle migrazioni epocali che tutto questo comporta.

18 maggio 2016: Calenda e Tsipras inaugurano la Trans Adriatic Pipeline a Salonicco.

Dunque, dicevamo: l’Europa avrà bisogno di gas.
E non di un gas qualsiasi, ma di gas indipendente !
E’ infatti ormai una questione prioritaria rompere il giogo della sottomissione energetica nei confronti di Mosca, dimostrando orgoglio e intransigenza nella strategia della fermezza a fianco dell’alleato ucraino!
La preoccupazione in tal senso è così alta che la Germania ha ratificato il raddoppio del North Stream, il gasdotto che già unisce direttamente, attraverso il Baltico, Vyborg, in Russia con Greifswald nella Repubblica Federale.
Il progetto Nord Stream/2, sostenuto da diverse compagnie europee (fra cui l’anglo-olandese Shell, le tedesche Uniper e Wintershall – controllata dalla Basf – la francese Engie e l’austriaca Omv) permetterà alla Germania, all’Olanda, alla Gran Bretagna, all’Austria e all’Italia di non interrompere gli approvvigionamenti di gas russo qualora Mosca provveda, nel 2019, a chiudere definitivamente a Kiev i rubinetti.

Dettagli come questo inducono il sospetto che tutta questa retorica antirussa in fatto di gas sia solo un’immensa cortina di fuffa.
Fin dall’inizio, la Trans Adriatic Pipeline ci è stata spacciata come una modalità indispensabile di diversificazione delle fonti energetiche che ci avrebbe permesso di alleggerire la dipendenza da Mosca, grazie all’apporto degli immensi giacimenti azeri.
Il fatto è che probabilmente i giacimenti azeri non sono poi così immensi.
Secondo Simon Pirani, Direttore di ricerca dell’Oxford Institute Energy Studies intervistato da Report:
Il Consorzio Tap dichiara che arriveranno 10 miliardi di metri cubi di gas per poi passare a 20. Ma non capisco dove prenderà quest’altra parte di gas. Sappiamo che i giacimenti attuali nel 2023 saranno in declino…. L’Azerbaigian ha da poco chiesto alla Russia di importare del gas per soddisfare i propri bisogni. Se non ne ha per sé, quanto ne avrà da esportare in Europa?“.
Non è dunque impossibile che dal TAP scaturisca l’odiato gas russo, comprato e rivenduto dagli azeri, come del resto non è impossibile che il gas russo arrivi tramite il Turkish Stream, il gasdotto dalla Russia alla Turchia attualmente in costruzione, che si andrà ad intersecare con la TAP all’altezza di Kipoi, sul confine turco/greco.

Pirani continua dicendo: “Se poi vogliamo parlare di prezzo, secondo le nostre stime, sia il gas russo che quello liquido proveniente dagli Stati Uniti costeranno meno del gas che arriverà dall’Azerbaigian“.

In pratica, gran parte degli argomenti utilizzati per farci accettare la costruzione della Trans Adriatic Pipeline non hanno fondamento: dalle necessità del mercato interno, al calmieramento dei prezzi, all’indipendenza da Putin.
Se dunque non è il supremo interesse nazionale a giustificare l’assedio di Melendugno, in difesa di quali interessi prefetto e questore hanno disposto cotanto spiegamento di forze? (Continua)

 

 


  1. Snam Rete Gas, Piano di realizzazione di nuova capacità e di potenziamento della rete di trasporto. Anno Termico 2015/2016, p. 25. 

  2. Demostene Floros, Dal South al Turkish Stream: Ankara gioca la carta russa, in ‘Limes’ n. 5/2015, pp. 136/137. 

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Alla canna del gas è un articolo pubblicato su Carmilla on line.

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zanzisap
2333 days ago
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Il referendum lombardo non è solo inutile, è anche ingiusto

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Operazione di facciata per scaldare i cuori dell’elettorato leghista tradizionale, il referendum potrebbe essere una cattiva idea sotto tutti i punti di vista.

Sono passati ormai quattro mesi da quel 29 maggio in cui Roberto Maroni ha annunciato che il 22 ottobre si sarebbe tenuto un referendum sull’autonomia lombarda. Il governatore leghista stava architettando la consultazione da più di due anni – il consiglio regionale lombardo aveva già dato il via libera nel febbraio del 2015 – ma ha dato l’annuncio ufficiale soltanto questa primavera, in una giornata esoterica: la Festa della Lombardia, una ricorrenza istituita da lui stesso per ricordare la Battaglia di Legnano.

Questo il quesito a cui saranno chiamati a rispondere i cittadini:

“Volete voi che la Regione Lombardia, in considerazione della sua specialità, nel quadro dell’unità nazionale, intraprenda le iniziative istituzionali necessarie per richiedere allo Stato l’attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, con le relative risorse, ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 116, terzo comma, della Costituzione e con riferimento a ogni materia legislativa per cui tale procedimento sia ammesso in base all’articolo richiamato?”

Un quesito piuttosto fumoso, che non indica di preciso cosa si intenda con “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” — e che risulta buffo e culinario quando prende in considerazione “la sua specialità.” Ma non è un problema, perché questo referendum in realtà non intende ottenere davvero qualcosa: è stato pensato per scaldare i cuori leghisti e fare un po’ di propaganda per il governatore al termine del suo mandato. Il governo aveva già dato disponibilità a trattare con la regione per venire incontro ad alcune delle richieste del Palazzo Lombardia, rendendo inutile il referendum. In realtà, essendo puramente consultivo e non vincolante, sarebbe stato inutile anche se il governo avesse ignorato le lamentele di Maroni— ma la propaganda viene prima di tutto.

Com’è noto infatti l’autonomismo è sempre stato uno dei cavalli di battaglia della Lega Nord — il motivo stesso per cui la Lega è nata, forse. Specie nei primi tempi, la parola secesiùn era stampata nel programma e soprattutto nei cuori dei militanti. Col passare del tempo però — con il consolidarsi dell’amicizia con Berlusconi, l’istituzionalizzazione del movimento e l’ingresso al governo — le spinte indipendentiste si sono annacquate in rivendicazioni più blande: la richiesta di maggiore autonomia per le istituzioni locali, la devolution, la macroregione, eccetera.

Negli ultimi tre anni, il segretario Salvini ha cercato di tenere insieme l’identità nordista col tentativo di fondare un partito populista di destra a base nazionale — mandando su tutte le furie il fondatore Bossi. Salvini, ovviamente, è entusiasta del referendum. Sa bene che non può scontentare la propria base polentona: nonostante le velleità nazionaliste infatti il suo partito è ancora radicato quasi esclusivamente al Nord, dove governa due regioni importantissime — Lombardia e Veneto. Tra lui e Maroni non scorre buonissimo sangue, ma senza dubbio la Lega arriverà al doppio referendum entusiasta e unita: lo stesso giorno, infatti, si terrà un referendum analogo in Veneto.

Alcune fonti informate sulle dinamiche leghiste ci hanno riferito che i piani alti della Lega hanno paura che la partecipazione al referendum si riveli un flop, nonostante il chiacchiericcio pubblico diffuso intorno ad esso dopo i risultati esplosivi del referendum catalano. Ma questo referendum, se non si è leghisti, ha senso?

Nessun esponente di spicco della politica lombarda si era espresso contro l’idea di una maggior autonomia della propria regione. Le critiche arrivate dall’opposizione, soprattutto quella del PD, che in Consiglio regionale è la principale formazione di minoranza, si concentrano tutte sul fatto che il referendum sarà un salasso non necessario per le casse lombarde. La consultazione infatti verrà a costare complessivamente 48 milioni di euro — di cui addirittura 23 per l’acquisto dei tablet su cui si voterà e 3 milioni per la propaganda di dubbio gusto promossa dalla Regione stessa, particolarmente martellante soprattutto nel capoluogo.

Il sindaco di Milano Giuseppe Sala si è esposto fino a dichiarare quanto segue: “Io consiglierò di votare positivamente. Questo non è un tema che appartiene alla Lega ma un po’ a tutti, e su cui il governo ha dato chiare aperture: a mio parere è un tema giusto. Ma il referendum è assolutamente inutile.” Altri personaggi di spicco come Maurizio Martina, il nuovo migliore amico di Renzi che proviene dalla bergamasca, o il segretario regionale del PD Alessandro Alfieri, hanno tutti mosso critiche su questa linea. Addirittura, a fine giugno si era costituito un comitato per il sì tra i sindaci dei capoluoghi lombardi controllati dal PD: Varese, Bergamo, Milano, Brescia, Mantova, Cremona e Sondrio — unico assente il sindaco PD di Pavia Depaoli. In particolare il sì è sostenuto dal primo cittadino bergamasco Giorgio Gori, probabile candidato di centrosinistra alle prossime consultazioni regionali.

Quello che fa gola agli amministratori locali di ogni colore e dimensione – in modo magari comprensibile, dal loro punto di vista – è la possibilità che il governo conceda alla Regione Lombardia di tenere per sé una percentuale maggiore delle tasse versate allo stato dai propri cittadini. Oggi il residuo fiscale lombardo ammonta a 53 milioni di euro, e tutti sperano di poterlo ridurre per dare un po’ di respiro, ad esempio, alle casse dei comuni.


Noi siamo già indipendenti, ma per rimanere tali abbiamo bisogno del vostro aiuto: sta per finire la campagna crowdfunding su Produzioni dal basso, se ti piace il nostro lavoro prendi in considerazione l’idea di donarci 5 euro.


È il momento però di far notare anche che più competenze non significa necessariamente più soldi. Facciamo un esempio assurdo: ai sensi dell’articolo 116 della Costituzione, lo stato centrale decide di trasferire alla regione la gestione dell’istruzione pubblica. I soldi che verranno girati dallo stato alla regione per gestire la sua nuova competenza – perché in ogni caso i soldi delle tasse passeranno da Roma che provvederà a farli ritornare sul territorio – saranno la stessa quantità di quanto era lo stato a gestire direttamente la materia. In altre parole: l’unica differenza potrebbe essere che sulla busta paga degli insegnanti ci sia solo un cambio di mittente, non di cifre.

Nonostante sia quantomeno discutibile che al PD convenga appoggiare anche solo in modo ambiguo una mozione così caratterizzante dei suoi principali avversari regionali, il punto di vista degli amministratori locali può essere anche comprensibile. Però, pur essendo le cariche pubbliche più numerose e vicine ai cittadini rispetto a quelle statali, gli amministratori locali non hanno necessariamente ragione. Siamo sicuri che l’aumento di potere delle istituzioni locali, in particolare delle regioni, sia anche a livello concettuale una buona cosa? Negli ultimi venticinque anni il discorso politico italiano ha visto crescere una vena di ostilità verso lo stato centrale, visto come un vampiro gestito da politici incapaci e parassiti. Questo non vuol dire, però, che dare più poteri alle regioni sia necessariamente una buona soluzione al malgoverno centrale.

In particolare, in Lombardia e altrove, alcuni tra i maggiori scandali politici degli ultimi anni hanno coinvolto figure – anche di spicco – della politica locale e regionale. Un esempio lampante è il caso dell’ex Presidente della Regione Roberto Formigoni, più volte incriminato per intrallazzi vari, soprattutto nel settore della sanità: che a sentire il centrodestra è il fiore all’occhiello dell’amministrazione regionale, la testimonianza che il decentramento funziona. Forse non è proprio così. Solo un anno e mezzo fa è stato arrestato Mario Mantovani, vicepresidente della Regione e braccio destro di Maroni, con una lunga serie di accuse di corruzione.

La scritta apparsa sul Pirellone durante il Family day

La scritta apparsa sul Pirellone durante il Family day

Anche nel probabile caso in cui – tramite referendum o trattative dirette col governo – il governatore riuscisse ad ottenere una maggiore autonomia in qualche campo come l’istruzione, i trasporti o la sanità, c’è da chiedersi come verrebbero gestiti questo potere e queste risorse. Cosa ci si può aspettare da questa amministrazione regionale? Un finanziamento per un nuovo telefono omofobo? Qualche scritta sul Pirellone inneggiante alla famiglia tradizionale più di una volta ogni due mesi?

Inoltre, anche se la nostra regione fosse governata dalla giunta più virtuosa possibile, è discutibile che fomentare e incentivare i piccoli campanilismi sia una buona idea. Quando si fa parte di una comunità è giusto versare il proprio contributo perché venga redistribuito. Anzi, soprattutto se si fa parte dello stato italiano, che è uno dei paesi con la più drammatica disparità di sviluppo economico e sociale al suo interno. Basta guardare questa cartina per rendersi conto che la questione meridionale, centocinquant’anni dopo la supposta unità d’Italia, è ancora il nostro problema numero uno di questo paese — nonostante non sia nemmeno tra i primi dieci argomenti più discussi dai nostri politici.

disparità Italia, nord sud

Anziché consentire ai più ricchi di tenersi più soldi, si potrebbero usare le famose risorse che le amministrazioni locali vorrebbero per sé in un programma serio di investimenti pubblici per la crescita, non assistenzialista, del mezzogiorno. Il divario Nord-Sud è già enorme, allargarlo non è una buona idea.



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zanzisap
2377 days ago
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Minchia, signor tenente

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Firenze, due ragazze accusano i carabinieri di stupro. Pur di non avere un titolo su Libero.

(Finalmente abbiamo trovato un lavoro che gli italiani vogliono ancora fare)

Le vittime della violenza sono due studentesse americane. Stanno rimpiangendo le sparatorie del college.

Il sindaco Nardella: “È importante che gli studenti stranieri imparino che Firenze non è la città dello sballo”. Costi quel che costi.

(Nessuno ha ancora fatto notare che gli stupratori avevano vitto e alloggio a carico dello Stato?)

Uno dei due carabinieri afferma che il rapporto sessuale era consenziente. Il collega ci stava.

Le ragazze non avrebbero opposto resistenza. Per non commettere un reato.

Prende corpo l’ipotesi che le due americane fossero ubriache e drogate. Altrimenti come avrebbero potuto pensare di venire a studiare in Italia?

Gli accusati dichiarano di “non avere percepito contrarietà” da parte delle studentesse. Sono i vantaggi del coma etilico.

(D’altronde come fa un carabiniere a capire un NO se glielo dici in americano?)

Rinvenuto liquido seminale nell’appartamento delle ragazze, sulle scale e nell’androne. Per poter ritrovare la strada al buio.

Trovate tracce biologiche anche nell’ascensore. Vabbe’, ma chi non ha mai provato a premere il 4 col pisello?

(In quella casa ci sono così tante tracce biologiche che un fulmine potrebbe creare esseri viventi)

Gli investigatori: “Il racconto delle giovani presenta alcune imprecisioni”. Non c’è neanche un negro.

Il Codice Penale specifica che “il reato si consuma anche solo abusando dell’inferiorità psichica altrui”. Quindi per le studentesse si mette male.

La ministra Pinotti: “Atto inaudito se commesso in uniforme”. Per certe cose c’è il tempo libero.

Gli accusati si presentano in procura. “C’è figa?”

Nella ricostruzione dei carabinieri c’è un buco di un’ora. Serviva a fare bella figura con i colleghi.

(Secondo la versione ufficiale, le due studentesse sarebbero scivolate sulle scale cadendo sul cazzo dei carabinieri)

Le indagini rivelano che una delle ragazze americane aveva bevuto molto e fumato hashish. Senza contare che aveva in borsa delle cesoie da funivia.

“La ragazza era sobria”, ha dichiarato uno dei carabinieri. Era l’altro che girava la stanza.

(È contemporaneamente ubriaca da essere accompagnata a casa e sobria quando la scopi. La studentessa di Schrödinger)

Le vittime: “Siamo rimaste in silenzio perché erano armati”. Oppure erano felici di vederle.

Uno dei carabinieri accusati di stupro è scoppiato a piangere davanti alla sua legale. Le aveva chiesto un preventivo.

Gli accusati tentano di cambiare strategia: “Avevamo puntato le minchie in aria ma un calcinaccio ha deviato la traiettoria”.

(Guardiamo il lato positivo: almeno non erano carabinieri a cavallo)

Il verbale dell’interrogatorio: “Rapporto sessuale cosenz conses conzenz CI STAVANO”.

Smentite le voci sull’esistenza di una polizza contro lo stupro. Altrimenti sarebbe bastata la constatazione amichevole.

Gli inquirenti: “Le ragazze hanno lasciato Firenze e ora si trovano in un posto sicuro”. Dove non possono importunare nessuno.

(Ora si sente la mancanza di una Serracchiani che ci ricordi quanto è brutto che dei carabinieri vìolino il patto con il Paese stuprando)

Come sempre accade in questi casi controversi, gli italiani si dividono tra innocentisti (“episodio frutto di incomprensione”) e colpevolisti (“sono proprio due zoccole”).

Il viceministro dell’Interno: “Un fatto isolato”. Bei tempi quelli della Diaz quando si faceva baldoria tutti insieme.

Salvini sospetta che lo stupro di Firenze sia servito a distogliere l’attenzione da quello di Rimini. Quindi si trattava di carabinieri buonisti.

Minniti: “Una divisa non può macchiarsi”. Non se hai una buona mira.

* * *

Autori: maurizio neri, antonio carano, birbo bicirossa, rostokkio, sisivabbe, xanax, montales, mantovanale, cricon, ordinary madness, luca’s jokes, slopero, a.mazed, zip, acid rain, ibico, valeriomoro, george clone, klaud, comagirl00, mascianiello.

Illustrazioni: lughino, semola, sciscia.

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zanzisap
2398 days ago
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Divine Divane Visioni (Cinema porno) – 77

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di Dziga Cacace

Plus tu baises, moins tu cogites et mieux tu dors.

900 – Ma pensa tu che mistero, Il triangolo delle Bermude di René Cardona Jr., Italia/Messico 1978
Mani sulle palle o dove vi aggrada, perché secondo me questo film mena rogna come pochi. È tutto sinistro, tutto inquietante, a partire da una fattura quasi amatoriale, con una fotografia sgraziata, degli zoom telescopici e un cast che lascia sconcertati per i nomi coinvolti e per l’utilizzo che se ne fa: a fianco di John Huston (no, dico: John Huston!) e Marina Vlady c’è pure Gloria Guida, loro improbabile figlia, dalla fisicata clamorosa e con occhi che sembrano due fanali. Bene, questi popò di attoroni danno vita a una vicenda che ruota attorno a uno di quei supposti Misteri che negli anni Settanta davano i brividi a lettori ingenui come me. Prima del complottismo e delle verità alternative dei social si dibatteva dell’esistenza dell’Uomo delle nevi, del continente perduto di Atlantide, dell’autocombustione improvvisa e, ovviamente, dell’inesorabile Triangolo delle Bermuda, poligono che sembrava esaltare le mie fantasie adolescenti molto più di altri triangoli (…). Erano misteri che trovavi pure in edicola, a dispense, altro che Costruisci il tuo presepe o Colleziona sottobicchieri di marchi di birra. Bene, quelli erano i tempi e non poteva mancare l’esito cinematografico che io vidi per la prima volta assieme a mia madre al cinema Lumière di Genova in una proiezione pomeridiana, sul finire degli anni Settanta, mio esordio nell’amata sala dove avrei passato molte serate felici ai tempi dell’università. Comunque: regista di questa cosa abbastanza improponibile era il professionale (e non si direbbe, eh) René Cardona Jr., già autore di quel Tintorera prediletto da Quentin Tarantino visto più e più volte sulle tivù locali genovesi durante gli anni Ottanta e figlio del Cardona Senior che ha firmato I sopravvissuti delle Ande, mio film formativo visto al parrocchiale di Champoluc (formativo perché mi ero reso conto della differenza tra riprese in studio e riprese in esterna, montate assieme in modo fotograficamente lancinante). Il plot de Il triangolo delle Bermude è semplice da far tenerezza: c’è uno yacht un po’ scassato che incrocia nel Triangolo maledetto per una missione archeologica. La dirige il vecchio Huston, a bordo con la famiglia: la moglie e i 4 figli. Partecipano anche il fratello, un medico alcolizzato identico a Marcello Lippi che ha sulla coscienza un intervento in cui ha ucciso un paziente (il medico, non Lippi), e la sua consorte (sempre del medico, non di Lippi). (Vabbeh, la smetto). Poi c’è il resto dell’equipaggio: il capitano nervosetto, l’ufficiale sciupafemmine, il motorista indio e il cuoco di bordo nero che parla da bovero negro. Gli leggi già in faccia che hanno tutti il destino segnato. Nel prologo assistiamo al naufragio di un veliero: in mare finisce anche una bambola con la faccia assassina che – oplà – viene trovata dai nostri eroi odierni ed è subito adottata dalla figlia minore di Huston, una mocciosa tremenda. La bambolina le parla e le rivela chi morirà, quando e come, cosa che puntuale la stronzetta annuncia lasciando tutti basiti.
Intanto lo yacht riceve via radio messaggi insensati, tipo quelli che lo stesso yacht manda nell’etere. Oppure arrivano richieste di soccorso – contemporanee o vecchie di anni – di aerei e navi che si perdono. La bussola è sempre impazzita, l’orizzonte assume colorazioni bizzarre, il mare ribolle, si sentono voci come le sirene di Ulisse e il radar manda immagini inquietanti. Insomma, una crocierina tranquilla. Durante una missione subacquea in cui si trova niente meno che una città sommersa avviene un maremoto e Gloria Guida rimane sotto una colonna che le frana addosso, sfasciandole le gambe. La cosa ha dell’incredibile perché le colonne sono in cartapesta, ma non meno straordinario è il colore rosso Ferrari del sangue che lorda le lunghe leve dell’attrice. E da lì la trama ha un’accelerata e si va verso un finale cialtrone, quasi sbrigativo. Tanto non c’è nulla da spiegare, il mistero del Triangolo rimane un mistero e fessi voi che pensavate che questo filmaccio potesse risolverlo. Il film ha un suo ritmo malato, è innegabile, e alterna le vicende sullo yacht – cioè le morti o le scomparse dei vari membri dell’equipaggio uno dopo l’altro – a scene documentarie che raccontano di altre sparizioni inspiegabili in quella porzione di oceano. Beh: che faccio, ve lo consiglio? Massì, dài. Magari risolvete l’arcano voi. E poi mi dite. (17/12/11)

901 – L’irriducibile Baise-Moi di Virginie Despentes e Coralie Trinh Thi, Francia 2000
Crime thriller sui generis a tinte noir e al contempo – per chi ama le categorizzazioni – rape e revenge movie, Baise-Moi è un film che ha avuto vita molto difficile, vietatissimo in molti paesi, ritirato in Francia, osteggiato da giudici cavillosi e dalle varie associazioni di rompicoglioni che devono decidere su cosa sia giusto o no vedere. Perché? Perché è un salutare calcio nelle palle al buon gusto borghese e un violento sputo in faccia al perbenismo cinematografico. È un film esplicito (in tutti i sensi, con penetrazioni e tutto l’armamentario da cinema hard) tacciato per convenienza di pornografia. Ma in realtà non evoca alcuna fantasia erotica, non eccita mai, semmai disturba e respinge ed è doloroso come una pallottola su per il culo (e non uso l’espressione a caso). Dunque: Nadine e Manu sono figlie delle banlieu, senza passato e senza futuro. Nadine fuma, beve, ascolta musica punk, si masturba. Se fosse un maschio sarebbe un figo nichilista. È una donna e quindi è una poco di buono. Del resto, si prostituisce, come l’assioma pretende. Manu è una beurette disoccupata che prende sberle da ogni lato: ha un fratello possessivo e violento che la considera – come tutti – una zoccola (avendo preso parte a un film porno per raggranellare qualche soldo). Viene violentata assieme a un’amica da quello che la stampa morbosa definirebbe un branco: subisce senza opporre resistenza, inanimata, per evitare il peggio. Non vi sto a dire cosa succede poi ma gli eventi prendono una piega vagamente estrema e Manu e Nadine, che non si conoscono, incrociano le loro strade e decidono di fuggire assieme. Da qui in poi è un delirio di violenza senza freni, una ribellione assoluta a regole e gerarchie, al mondo patriarcale e paternalista che le (e ci) attornia: questa vita non ha senso, e allora perché non sconvolgerla, perché non ribaltarla e provare un piccolo, momentaneo, attimo di rivincita e di felicità? “Più scopi, meno pensi, meglio dormi”, come esemplifica Nadine. La coppia scappa attraverso la Francia, la stampa gioca coi due personaggi che lasciano dietro di loro una striscia di sangue e tu spettatore sei sopraffatto dal racconto senza sconti, che non vuole indorarti la pillola facendo delle due assassine due romantiche eroine. Baise-Moi (che non vuol dire “baciami” ma “scopami”) è un Thelma e Louise amorale. E finalmente, dico io. A me quello era sembrato finto femminismo mercantilistico, una sorta di concessione su pellicola secondo logiche maschili e maschiliste. (Esagero. Però, insomma, pensateci). Questo film invece ti deve dar fastidio, è la sua ragion d’essere. Ti deve far male come la vita fa male alle protagoniste, due donne – due corpi – considerate a disposizione dalla società in cui vivono. La regia è di Virginie Despentes, autrice anarco-femminista del romanzo da cui il film è tratto, e Coralie Trinh Thi, ex attrice porno. E attrici hard lo sono anche le due interpreti principali, Karen Lancaume e Raffaëla Anderson, bravissime (senza ironia, giuro). La messa in scena è rozza, sgraziata e nervosa come il montaggio e tutto è girato in digitale, con luce solo naturale: l’impressione di realtà è molto forte e se ti aspetti i bei colori, l’immagine stabile, il cinema di papà, no, sei fuori strada, amico. Nel 2005 la Lancaume si è suicidata, quasi a mettere un sigillo reale ai problemi posti dal film che ha interpretato. Ma sto facendo il trombone: il film è particolare e può risultare indigesto ma è anche un ceffone che vi auguro di prendere sul muso. (18/12/11)

902 – E niente, non ce la faccio proprio: Guerre stellari – Il ritorno dello Jedi di Richard Marquand, USA 1983
Trascrivo i nervosi appunti sparsi che ho preso durante la visione assieme alla seienne Sofia: 1) l’imperatore si chiama Palpatine, giuro, e sembra Jorge, il monaco cieco del Nome della rosa, andato a male e con qualche problema di igiene dentaria in più. 2) Jabba the Hutt è un pouf di gommapiuma a forma di lumaca e nella sua taverna si suona del rhythm and blues da bordello veramente inascoltabile. 3) Yoda – altro che Jedi! – è un nano rugoso e furfante che insegna a Luke Skywalker a barare, a saltare come nessun altro è capace e a muovere gli oggetti come provava invano a fare Massimo Troisi in Ricomincio da tre. 4) Mark Hamill, Luke, appunto, è invece un curioso incrocio tra Johnny Dorelli, la salma di Mike Bongiorno e Franco Stradella (che conosco solo io, ma vi assicuro che c’entra) e il suo confronto edipico col padre è una palla al cazzo che non vi dico. 5) Darth Fener, quando si toglie il cascone nazistoide, è lo zio Fester! Ooooh, orrore e raccapriccio! 6) Luke ha inoltre intuito che Leila è sua sorella (primo colpo di scena mancato), poi (altro anticlimax) glielo dice e lei risponde: “Lo sapevo!”, roba che neanche a Carràmba! Che sorpresa in acido. 7) Tra l’altro Carrie Fisher fa la figa in bikini, ma non lo era prima con quei due pretzel in testa , figuriamoci ora col reggiseno che sembra fatto in ferro battuto. 8) Comunque tra il primo Guerre Stellari e questo terzo episodio della saga (in realtà il sesto ma lo sapevamo in pochi) il cast deve essere stato investito da una tempesta di meteoriti perché sembrano tutti invecchiati in maniera inclemente. 9) Gli ewoks, abitanti della “Luna boscosa di Endor”, sono dei nanetti imbustati in pigiamini pelosi. 10) Tra gli alleati dei ribelli ci sono anche dei branzini alieni veramente incredibili, da far cadere le braccia. Bene, cosa concludo, dopo queste noterelle amene? Beh, che questo è un film di una noia mortale: dura oltre due ore e non ti finisce più. Non so bene cos’abbiano aggiunto in questa versione rimasterizzata, rivista, ricorretta e tante altre palle. So che non ricordavo per niente le scene di giubilo in giro per la galassia alla notizia della vittoria contro l’Impero, tante enormi Times Square la sera di capodanno, questo mentre i nostri eroi fanno una festicciola intorno al fuoco come dei boy scout. Tutti tentativi di rendere un po’ meno naif la materia trattata, anche perché qui ci sono sganassoni da film per bambini, nemici cattivissimi che si arrendono senza colpo ferire, i nostri eroi che non vengono mai colpiti e non si sporcano neppure. A Sofia la fiaba prende moderatamente, specialmente il plot familiare, ma la conclusione è di film “carino”, giudizio che mi eviterà ripetute visioni future che avrei trovato letali. Lo so, per tanti amici e fedeli lettori sto bestemmiando, ma in verità, in verità vi dico, che Il ritorno dello Jedi è una cagata pazzesca. (Dvd; 19/12/11)

903 – Mi regalo Koyaanisqatsi di Godfrey Reggio, USA 1982
È il mio compleanno e mi tolgo una soddisfazione rara. Mi vedo un film alle 17, a casa, incurante di chicchessia, con Sofia che pronta si distende sulla mia calda ventrazza. Ed è Koyaanisqatsi, senza plot, senza dialoghi, solo la musica celestiale e inquietante di Philip Glass. E io, like a boss, godo di bestia, ad almeno 18 anni dall’ultima visione, quando facevo finta di studiare: assieme alla fraterna amica Hilda avevamo fantasticato col nostro relatore di scrivere la tesi di laurea sul rapporto tra cinema e architettura, abusato legame di volta in volta evocato da cineasti che vogliono darsi delle arie o da architetti in vena di fancazzismo; ci incontravamo la mattina per vedere film ed era veramente dura con tipi come Jon Jost (guardatevi City of angels e poi sappiatemi dire). Però questo Koyaanisqatsi, no, era stato un piacere che aveva coinvolto anche il nostro prof (che in una riunione dell’istituto di Urbanistica lo aveva chiamato – giuro – Coituoiscazzi). Attraverso riprese di bellezza abbacinante vediamo il mondo sconvolto dalla presenza umana. La poesia cinematografica mette in scena la natura, coi suoi tempi eterni e la sua maestosità imperturbabile, e la civiltà (per modo di dire) occidentale che avanza: miliardi di esseri che tutto travolgono e divorano, come un virus frenetico, folle e impazzito. Siamo wurstel in metropolitana, ecco cosa siamo, macchie di luce sull’autostrada mentre cala la Luna. Le immagini diventano astratte in velocizzazioni e rallenti, un caleidoscopio di colori e di suggestioni pittoriche, tra palazzi che cadono e muti monumenti in vetro e cemento al Capitale che riflettono le nuvole in incessante movimento. Il risultato è magnifico, assolutamente emozionante e struggente. Dovrei leggermi bene su Wiki le responsabilità autentiche di cotanto capolavoro, ma il direttore della fotografia (Ron Fricke) mi sembra la vera mente grafica di questa operazione, durata una decina di anni e sponsorizzata da Francis Ford Coppola una volta vista una preview. Eccezionale, veramente. (Dvd; 20/12/11)

904 – Adorabili, I compagni di Mario Monicelli, Italia 1963
Film personale e sfortunato di Monicelli, con le vicende di un gruppo di operai che rivendica cose minimamente civili nella Torino umbertina. Finisce male, in maniera anche narrativamente prevedibile, ma è caruccio, dotato di un calore che è raro trovare nel cinismo distaccato del vecchio Mario. Mastroianni – dolente e magnifico – è l’intellettuale, un po’ profittatore ma anche dotato di spina dorsale e capace infine di prendersi le sue responsabilità. I compagni risultò un film scomodo, poco popolare nonostante gli intenti ed ebbe scarso successo, peccato. Girato in un bianco e nero scintillante (fotografia di Giuseppe Rotunno), con precise e discrete caratterizzazioni e una Raffaella Carrà – fresca diplomata al Centro di Cinematografia Sperimentale, non scherzo – assolutamente credibile e mai più così a sinistra neanche quando ha ballato il Tuca tuca o presentato Pronto, Raffaella? (qui, scherzo. Però una grande). (Dvd; 23/12/11)

905 – Natale con Asterix e Obelix contro Cesare, Francia/Italia/Germania 1999
Vigilia natalizia santificata con film di fama incognita, ma mooolto desiderato dalle piccine. Ed è una porcata, che alle bambine piace (anche se a Elena, 3 anni, mette un po’ paura) e a noi adulti, o presunti tali, annoia tremendamente. Il film è un continuo esercizio di umorismo infantile che perde la magica qualità dei fumetti di Goscinny e Uderzo: saper far ridere a più livelli. Effettacci digitali (che forse, all’epoca… oggi: mah), Benigni che folleggia e almeno dà un po’ di vitalità, migliaia di comparse, Idefix che è il cane di Asterix e non di Obelix, Depardieu che non è dovuto ingrassare di un grammo per interpretare quest’ultimo e altre bestialità in un copione confuso che mescola diverse storie dell’amato villaggio di galli che non vuole arrendersi alla prepotenza romana. È un tradimento continuo, come sempre accade quando porti una narrazione da un media a un altro. Ma ci sono tradimenti possibili che sortiscono grandi invenzioni e tradimenti da infingardo che tradiscono la fiducia data e questo è il caso. Laetitia Casta – reduce allora da un festival di Sanremo muto a fianco di Fabio Fazio – si presta per una comparsata nuovamente silente ma molto tettuta, con testa vaporosa anni Ottanta per nulla filologica. Poco altro da ricordare, se non il rigonfiamento scrotale del sottoscritto: film costosissimo, lo han visto una trentina di milioni di persone nel mondo, potere della persuasione pubblicitaria e probabilmente dell’ignoranza del testo originale. A visione ultimata le bimbe vanno a dormire e noi ci mettiamo a impacchettare come dei carbonari i regali da mettere sotto l’albero. Poi ci tocca allestire la messinscena del passaggio delle renne di Babbo Natale in terrazzo: Barbara ha lasciato con Sofia ed Elena dei biscotti e una ciotola con del latte. Tocca a me consumarli truffaldinamente e lasciare la ciotola sporca e un po’ di briciole (si butta via mica niente, qui, eh). Infine io solo – in piena notte – mi riduco a costruire una maledetta cucina giocattolo in legno che sembra progettata da un ingegnere dell’Ikea in preda ai vapori della colla. (Dvd; 24/12/11)

906 – The Decline of Western Civilization di Penelope Spheeris, USA 1981
Il nome della regista probabilmente non vi dice niente, ma l’avete amata – eccome – per Wayne’s World, quello che un distributore italiota aveva ribattezzato incongruamente Fusi di testa. Ho ricordi antichi di quel film ma le parti migliori erano quelle di racconto sociologico della grande provincia americana e dei suoi miti spettacolari e consumistici. Ma dieci anni prima la Spheeris si era già misurata (e poi avrebbe continuato) col documentario vero e proprio, un esercizio indipendente di guerrilla filmmaking sulla scena hardcore punk losangelena. The Decline of Western Civilization è un film interessante, per nulla piacione, e in qualche maniera distaccato e disilluso, con un atteggiamento speculare a quello di chi viene raccontato e interpellato per dire la sua. I gruppi investigati (Black Flag, Germs, Fear, X e altri a me ignoti) mi fanno – confesso – cacare a spruzzo: son colpevole, lo ammetto, ma non son mai riuscito ad amare l’hardcore pur comprendendone le ragioni. A mia difesa posso solo dire che probabilmente il cacare a spruzzo verrebbe di molto apprezzato dai protagonisti di quella singolare esperienza musicale. Del resto – con chitarre, testi e costruzioni armoniche – questi, orgogliosamente, non vanno tanto lontano e gli interventi in concerto palesano che l’inabilità strumentale non sia questo gran problema: sono schifati, annoiati, contro tutto e tutti, e quel suonare storto, urlando e vomitando l’oscena verità è il loro modo per manifestarlo. Gli fa schifo la società, gli fan schifo i vecchi hippie così come i plastic people, rifiutano la politica tradizionale, la famiglia, il modo in cui (gli) è organizzata la vita. Gli X, con Exene Cervenka, sembrano quelli più strutturati, sia musicalmente che ideologicamente. Gli altri più spesso lasciano interdetti per mancanza di elaborazione ma se il senso è quello di non rispondere ai nostri abituali canoni dialogici, allora ci sta tutto. Dal punto di vista narrativo il documentario è abbastanza confuso e lasco e le interviste e le riprese non sono granché pensate. In questo senso è molto punk anche il film, quindi, che ha però un forte valore testimoniale, spaziando dalle esperienze personali dei protagonisti alla teoria e pratica del pogo e dello stage diving, passando per tatuaggi, testi, strumenti e ascoltando anche spettatori, fan, promoter e sicurezza dei locali. Qualche volta mi vien da sonnecchiare (a me è un mondo che non interessa granché, che ci devo fare?), ma c’è almeno una scena clamorosa che dovreste recuperare, con Lee Ving, il cantante dei Fear, che provoca il pubblico: finisce a sputazzate e mazzate, con una ragazza dalla mira implacabile (con saliva e mani). Il senso di tutta l’operazione – del film e del movimento artistico – la dà Richard Biggs, direttore della fanzine Slash e poi anche dell’etichetta omonima: il punk – dice – è l’unica forma di rivoluzione rimasta. E questo è in effetti un buon punto a favore. (26/12/11)

907 – La delusione de I diavoli volanti di A. Edward Sutherland, USA 1939
Vedo in edicola Stanlio e Ollio che mi salutano dal classico primo numero di una collana di Dvd a prezzo stracciato e, ancora circonfuso di spirito natalizio e trovando buono e giusto il consumo in questo momento di crisi, procedo all’acquisto pensando che le bambine si divertiranno un mondo. Beh: no. Durante la visione le sento che sbuffano e si distraggono. Il film è lentissimo, in effetti, e le gag si contano sulle dita di una mano. C’è la famosa scena in cui si canta e danza “Guardo gli asini che volano nel ciel…”, ma l’evento non smuove le piccole. La trama è elementare: per una delusione d’amore di Ollio il duo finisce nella Legione straniera, dove ne combinano di ogni colore (per modo di dire, visto che non succede quasi nulla). Si va avanti a tentoni e tutto risulta più frustrante che appagante. Carina la scena finale: dopo un’improbabile e involontaria fuga in aereo, i due comici si schiantano per terra e Ollio va in cielo come un angioletto. Però ritorna reincarnato in un cavallo. E vabbeh. I programmi di Giancarlo Governi che vedevo quando ero bambino distillavano il meglio della coppia e lo riproponevano montato ad hoc; un film intero, invece… bah! Va detto che si tratta di uno degli ultimi prodotti di Laurel e Hardy e in effetti, criticamente, non se lo fila nessuno. Però adesso ho paura anche a ripescare I figli del deserto che ho sempre amato tantissimo. (Dvd; 28/12/11)
P.s.: arriva il lieto fine! Siccome non ci sto a vedere denigrati gli amati Stanlio e Ollio, su YouTube recupero Liberty, una vecchia comica dove i due amici, scappati di prigione, si avventurano sulla struttura di un grattacielo in costruzione in compagnia non richiesta di un granchio che si infila nelle braghe di Ollio. Beh, qui si ride e tanto e le bimbe apprezzano moltissimo. E io sono sollevato: buon anno!

(Continua, ancora un poco – 77)

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Divine Divane Visioni (Cinema porno) – 77 è un articolo pubblicato su Carmilla on line.

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zanzisap
2398 days ago
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Avevamo davvero bisogno di Piazza Indipendenza?

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di Miriam Aly, studentessa 19enne

Siamo tutti oramai a conoscenza di ciò che è avvenuto a Roma in Piazza Indipendenza, a due passi dalla Stazione Termini: una situazione avviata il 19 Agosto 2017, in seguito allo sgombero dell’ex sede dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) in Via Curtatone, occupato dal 2013 e autogestito da circa duecentocinquanta famiglie, perlopiù eritree, etiope e somale, titolari di diverse forme di protezione internazionale (status di rifugiato, asilo politico…). Una questione politico sociale che ha scosso gran parte dell’opinione pubblica italiana ed estera, da politici a comuni cittadini, alimentando troppo spesso una narrazione razzista poco critica e poco analitica tale da distorcere l’evento stesso.

Gran parte dell’attenzione mediatica è infatti ricaduta sulla questione migranti, ricalcata da tesi estremamente protezionistiche giunte in molti casi al limite del fascismo, come si può leggere nei commenti sui vari social che hanno trattato la questione: ‘’tornate in Eritrea scimmie’’, ‘’vi dovrebbero bruciare tutti…’’, e ancora ‘’Roma è fascista e non vi vuole!’’. Oltre ai commenti prettamente dispregiativi, il web è stato inondato da analisi prive di dati, fonti e criticità da parte di moltissime persone che, oltre ad aumentare la distanza tra i concetti di solidarietà e senso civico, hanno sostenuto innumerevoli paragoni tra i rifugiati di Piazza Indipendenza e clochard italiani, vittime dei terremoti degli ultimi anni o cittadini che non riescono ad arrivare a fine mese e che ‘’comunque non vanno ad occupare’’. Pochissime le persone che si sono chieste il come ed il perché dell’avvenuto, e ancora meno le persone che erano direttamente presenti sul luogo dello sgombero, stesso luogo in cui all’alba del 24 Agosto gli agenti in assetto antisommossa hanno caricato, anche con idranti, le persone che avevano dormito in piazza in attesa di una soluzione da parte delle istituzioni, privando ulteriormente uomini, donne e bambini della loro dignità. E’ chiaro che la situazione di Via Curtatone è figlia di una fortissima deresponsabilizzazione politica riguardo le precarie misure di accoglienza in Italia e nella Capitale, che fino ad oggi hanno mascherato l’emergenza abitativa in un problema di ordine pubblico, trovandone il picco massimo nello sgombero dello scorso Agosto. Ma è altrettanto evidente che a marcare maggiormente l’alienazione dei rifugiati, già alienati a causa del loro status politico, è il dibattito pubblico, che si è mostrato ancora una volta incapace di analizzare una situazione che avrebbe quantomeno dovuto trascendere la questione razziale, e che invece ha aumentato l’odio nei confronti di persone che sono nate nella parte sbagliata del mondo, offuscando il reale problema, le sue cause e la sua effettiva soluzione. Agli occhi dello spettatore medio, infatti, è risultato un problema di decoro, in quanto le centinaia di persone che hanno per diverse notti dormito in piazza insieme ai propri oggetti di prima necessità rendevano quella zona sporca, diventando dunque loro stessi un pessimo biglietto da visita per gli innumerevoli turisti di passaggio nel centro di Roma. Ancora peggio: spesso si è fatto riferimento, nel dibattito pubblico, ad una possibile situazione terroristica. Tutte queste tesi poco chiare si sono diffuse e sono entrate rapidamente a far parte dell’immaginario politico di moltissime persone, generando una vera e propria guerra contro i poveri e tra poveri, screditando in tutti i modi possibili l’unica guerra di cui si doveva sentire la reale necessità: la guerra alla povertà.

Non ci siamo resi conto che quei rifugiati potevamo essere noi e che, anzi, quei rifugiati sono molti di noi. La retorica della legalità ha infangato di nuovo lo stato di diritto e non ce ne siamo neanche accorti: ognuno di noi ha bisogno di qualcosa che non ci è concesso, qualcuno più di altri, ed è questo il punto dal quale dovremmo capire, tutti, che è sbagliato non offrire solidarietà a persone che hanno chiesto un aiuto, mentre intorno, da anni, tutto taceva; che non si deve cercare in tutti i modi di ristringere i diritti a persone che sembrano diverse da noi, ma che in realtà sono proprio come noi, e come molti di noi hanno bisogno di una casa e degli stessi diritti che a loro mancano; che tutti dovrebbero dormire con un tetto sulla testa, indipendentemente dal proprio paese di origine o dal proprio colore della pelle e che dobbiamo distruggere quel sistema classista che porta a scegliere chi merita una casa e chi no, come se qualcuno avesse più dignità di qualcun altro. L’emergenza abitativa è infatti una problematica che ha distrutto e continua a distruggere la vita di centinaia di persone, facendo loro vivere in condizioni di estremo disagio, generando polemiche sul tema legalità, legato però soltanto alla presenza di persone straniere all’interno del nostro paese e all’immigrazione, e mai alle responsabilità politiche, alla costituzione o semplicemente ai diritti umani. La mancanza di legalità si trova infatti a monte del problema: se quelle persone hanno occupato lo stabile di Via Curtatone nel 2013 è perché non è stata rispettata la tutela prevista dalla costituzione (articolo 10, comma 3: ‘’lo straniero, al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione Italiana, ha il diritto d’asilo nel territorio della Repubblica’’), da parte delle varie istituzioni che avrebbero dovuto prendersi carico delle misure di accoglienza; tutto ciò, non solo ha costretto duecentocinquanta famiglie (oltre le migliaia che tutt’oggi occupano vari palazzi nell’intero paese) a vivere come occupanti, ma ha anche cercato di indirizzare in tutti i modi l’attenzione mediatica sulla paradossale criminalità in cui quei rifugiati erano costretti a vivere, dopo 4 anni di silenzio. Dopo lo sgombero infatti, molti dei rifugiati hanno atteso in mezzo alla strada per diversi giorni un’alternativa che consentisse la loro totale integrazione nell’ambiente romano, ricevendo invece la più totale indifferenza da parte di tutte le istituzioni politiche che non hanno fornito nessun di tipo di assistenza dopo l’ordine di sgombero, creando, al contrario, un problema peggiore di quello iniziale. Piazza Indipendenza ci ha mostrato una legalità sostenuta, apparente, debole, che non si mette in gioco fin quando non genera troppa indignazione dalla parte opposta e che rappresenta un terreno fertile su cui far crescere i propri interessi politici, aumentandone il consenso. Ci hanno voluto mostrare il lato più scomodo della vicenda, e non il marcio che si trova dietro: spostare l’attenzione su un fittizio racket nelle occupazioni (negato da tutti gli occupanti), mostrare e alimentare il conflitto tra poveri italiani e poveri stranieri, ignorando in ogni modo che sostanzialmente ciò che accumuna queste persone è la povertà, e che quest’ultima dovrebbe essere un nemico comune da combattere fianco a fianco, con cittadini riuniti e istituzioni. Ci hanno mostrato le graduatorie alle case popolari piene di nomi stranieri, ignorando le centinaia di case popolari nelle periferie di Roma abitate da cittadini italiani e i moltissimi altri italiani che sempre più spesso fanno domanda. Quanto è grande un’emergenza abitativa per la quale la più grande ambizione è quella di vivere in una casa popolare? Molto. Tanto grande da pensare all’integrazione come un’idea ancora lontanissima e da mostrarci il volto più falso e incapace dell’informazione mediatica e dell’amministrazione capitolina. Quest’ultima non ha provato in alcun modo a prendersi carico delle conseguenze di anni di indifferenza e di speculazione che si sono svolti tra sgomberi e mancate soluzioni, basti ricordare lo sgombero del borghetto di Ponte Mammolo nel 2015, gestito in modo analogo a quello avvenuto a Via Curtatone, per il quale l’assessora alle politiche sociali Laura Baldassarre affermò ‘’mai più situazioni come Ponte Mammolo, senza un piano alternativo prima di uno sgombero’’, mentre due anni dopo da quelle parole l’assessora si è ritrovata in vacanza all’estero senza proferire parola sull’accaduto o proporre un piano alternativo; ancora una volta, nonostante la surreale violenza dello scorso Agosto, la cosa più importante da fare sembrava fosse trovare un capro espiatorio, il quale per la maggior parte del dibattito pubblico è rappresentato paradossalmente dai rifugiati stessi, mentre per le istituzioni di dovere era sempre qualcun altro, generando un interminabile scarica barile che ha coperto con un pesantissimo velo di umiliazione un problema giunto oramai al limite. Lo sgombero di Piazza non è assolutamente un fatto isolato: il 30 Agosto, ad esempio, è stato analogamente sgomberato un palazzo a Tor Cervara, in Via Raffaele Costi, in cui vivono circa cento persone, tra cui italiani, rumeni ed etiopi, totalmente abbondati dalle istituzioni e da anni in attesa per una casa popolare. Per moltissimo tempo non si è svolto neanche il minimo del servizio pubblico, cioè la raccolta dei rifiuti; in quel posto non è stato effettuato nessun intervento da parte dell’Ama, anche dopo diverse segnalazioni al Municipio, rendendo l’intorno di quel palazzo una discarica a cielo aperto. Anche qui, dopo lo sgombero, gli occupanti hanno dormito per strada per due giorni, per poi rioccupare il palazzo dopo essersi resi conto del silenzio che persisteva dall’altra parte.

Il silenzio della Regione Lazio e di Zingaretti, la latitanza di Virginia Raggi che, dopo diversi giorni di silenzio, incolpa il governo con il senno del poi, mentre all’inizio della sua giunta dichiarò pubblicamente ‘’I rifugiati sono nostri fratelli e sorelle, Roma città accogliente farà la sua parte’’. L’assenza totale del Comune durante i fatti di Piazza Indipendenza ci dimostra che le istituzioni sono state sempre più influenzate dal peggior fascismo: l’indifferenza che continua a permettere una sfrontata violenza, figlia del clima che ci viene imboccato per mano di istigatori all’odio come Salvini che ha incitato per diverso tempo ‘’forza ragazzi, sgomberi, ordine e polizia!’’, senza proporre alcun piano politico reale; come Luigi Di Maio, che, insieme al Movimento Cinque Stelle, ha sostenuto l’efficacia della violenza gratuita effettuata dalla Questura, accettandola e affermandola come una fonte di liberazione, sostenendo che Raggi deve pensare prima ai romani, come se queste persone, i rifugiati, dovessero improvvisamente diventare invisibili, disperdersi nel quotidiano senza farsi sentire; come Alessandro Sallusti, direttore de Il Giornale, che ha inscenato a proprio favore, ora più che mai, una vera e propria propaganda del terrore mediatico, con titoli come ‘’Boldrini clandestina’’ che generano un’impagabile disinformazione. Un movimento al limite della sociofobia che procede di pari passo all’incoscienza del Partito Democratico e del clima generato da Minniti, capace solo di propinare giudizi surreali su qualunque tematica che possa attirare la pubblica attenzione. In seguito ai fatti di Piazza Indipendenza il dibattito pubblico ha visto il picco di un razzismo violento, senza misura, implacabile e soprattutto indirizzato più che mai a prevaricare qualunque scintilla di buon senso: lo abbiamo visto anche dopo lo stupro di Rimini, in seguito al quale un esponente foggiano di Noi con Salvini ha dichiarato ‘’quando succederà alla Boldrini e alle donne del PD?’’, un commento aberrante, ma soprattutto incoerente, immaturo, vuoto, enfatizzato solo dal razzismo, meno che mai analitico.

Ultimamente razzismo, fascismo, ignoranza e xenofobia si sono riuniti generando inevitabilmente un odio, schierato e dirompente, mascherato da senso civico. Lo abbiamo visto a Piazza Indipendenza, lo abbiamo visto sui titoli di giornali come Libero e Il Tempo, e lo abbiamo visto benissimo al Tiburtino III, dove la notte tra il 29/08 e il 30/08, vicino al presidio umanitario della Croce Rossa Italiana di Via del Frantoio, un uomo eritreo di 40 anni è stato ancora una volta vittima di una sfrontata intolleranza: l’uomo, con problemi psichici, è infatti stato accusato di aver lanciato dei sassi contro dei bambini del quartiere, di aver abusato di uno di loro e addirittura di aver sequestrato una donna all’interno del centro; in seguito, per questi motivi, Jacob M. è stato accoltellato all’altezza della scapola, ma cosa peggiore, nei giorni successivi le accuse nei suoi confronti si sono rivelate totalmente false. Nonostante ciò, nei giorni seguenti la violenza è continuata per mano di Forza Nuova, del movimento ‘’Roma ai romani’’, di neofascisti e di altri militanti di estrema destra che hanno dichiarato: ‘’siamo pronti a riprenderci ciò che è nostro. Ogni centro di accoglienza sarà una trincea’’. Una lotta verso il nulla.

Sono stati generati dei fantasmi, inesistenti, che nella mente di molte persone continuano a far paura.

Dopo i focolai alimentati da una cattiva politica, dopo una fuorviante guerra tra gli ultimi, non c’è ancora nessuna soluzione per le persone di Piazza Indipendenza. Nessuna. La società che ha in gestione l’immobile sgomberato, Idea Fimit, e il Campidoglio hanno proposto circa 80 alloggi temporanei presso lo SPRAR, Servizio centrale di Protezione per i Richiedenti Asilo e Rifugiati, e altri 80 a Rieti per la durata di sei mesi. Queste soluzioni provvisorie sono state rifiutate dai rifugiati per due ovvi e semplici motivi, ignorati totalmente dall’opinione pubblica: lo SPRAR era impossibilitato ad accogliere quelle persone in quanto avevano ottenuto il diritto di asilo politico, e dunque la tutela nazionale, da più di sei mesi, mentre quel Servizio è destinato solo a coloro che sono in attesa di ricevere l’accettazione dello status; inoltre, i rifugiati sono stati portati fisiologicamente a rifiutare la proposta di Rieti in quanto, in primo piano, il sindaco Marco Cortella, oltre a non aver ricevuto nessun consulto da parte del Campidoglio, ha esplicitamente dichiarato che il Comune di Forano non avrebbe potuto ospitare ulteriori rifugiati poiché ne sono già stati accolti 40, superando anche le percentuali richieste dal Viminale sul fronte dell’accoglienza di migranti o rifugiati, di cui 30 si trovano in un centro di assistenza straordinaria, e i restanti 10 vivono in due appartamenti. E’ doveroso dire anche che la lotta portata avanti dai rifugiati di Piazza Indipendenza è una lotta capillare, e in quanto tale non avrebbero mai potuto accettare dei compromessi che avrebbero ridisegnato maggiormente, a favore dei poteri forti, i loro diritti. Non solo si è cercato di giostrare la situazione tramite l’indifferenza, politica e direttamente umana, ma questa stessa indifferenza è stata ostentata rendendola un concetto tangibile, chiaro e con uno scopo politico ben preciso: nascondere. L’umiliazione di quelle persone è stata generata da un silenzio assordante ed estremo, che è durato fino al 4 settembre. Infatti, dopo aver riorganizzato un presidio temporaneo a Piazza Venezia, in Piazza Madonna di Loreto, i rifugiati sono stati nuovamente sgomberati da polizia, vigili urbani e addirittura dall’AMA, società addetta ai servizi ambientali del Comune di Roma, affermando indirettamente la presenza di un problema limitato all’ordine pubblico. Ma la situazione continua a degenerare senza alcuna responsabilità: per i cinquecento sgomberati la Sala Operativa Sociale del Comune di Roma ha offerto 24 posti per sole donne in Via Savi, e 65 per soli uomini tra Casalotti e Via dell’Usignolo; oltre ad essere una soluzione estremamente superflua in proporzione al numero di persone che hanno bisogno di aiuto, è stata anche una fittizia risposta ad una domanda che risuona drammaticamente da giorni tra i rifugiati: ‘’che ne sarà di noi?’’; l’unica risposta possibile che è stata percepita è in ogni modo costernata da una finalità unica di dare forfait, generando una diaspora all’interno di una già sviluppata divulgazione di una necessaria invisibilità. Solo ventisette rifugiati hanno accettato, un numero che, su cinquecento, non fa testo. Pensare di dividere dei padri dai propri figli, oltre ad essere una scelta politica democraticamente errata, rappresenta un’umanità arida, gretta e venale. Il giorno seguente la Questura ha tentato nuovamente di sgomberare, o meglio, eliminare i rifugiati di Piazza Venezia, buttando addirittura via i loro oggetti, assicurandosi che non si sedessero per terra. L’obiettivo sembra essere diventato nascondere queste persone. Il prefetto di Roma Paola Basilone, chiaramente impreparata sull’argomento, ha sostenuto che i rifugiati hanno rifiutato le alternative abitative proposte poiché intimiditi dai movimenti della lotta per la casa. Il prefetto, oltre ad aver speculato su un enorme lavoro, ha annebbiato con le sue insinuazioni una triste realtà: le realtà di Piazzale Maslax, presidio di Baobab Experience, gestito da liberi cittadini che hanno lottato per offrire solidarietà, attività culturali e prima accoglienza quando a Roma sono da anni assenti le misure di accoglienza idonee e qualunque alternativa agli sgomberi, assumendosi una responsabilità politica dimenticata e offrendo a centinaia di persone un’assistenza totale, fondamentale e soprattutto reale.

E’ stato un razzismo che ha generato un’umiliazione radicale nei confronti di persone che provengono da una realtà quantomeno lontana da qualunque immaginario democratico occidentale: oggi, infatti, l’Etiopia è un paese militarizzato, sottoposto ad una violentissima dittatura da parte del presidente e dittatore Isaias Afewerki, che ha estirpato dal paese ogni forma di libertà, compresa quella di opinione, dopo aver eliminato tutte le università, introdotto il servizio militare obbligatorio per ragazzi e ragazze e istituito dei veri e propri lager governativi per gli oppositori del regime, rendendo l’Etiopia una prigione a cielo aperto (notizie fornite dal Coordinamento Eritrea Democratica).

E’ stato un razzismo squallido perché generato da un ampio abuso di potere, quello delle forze dell’ordine e quello di gran parte degli italiani che si sono rivendicati un merito inesistente di eroi del senso civico, dimenticando i 52 anni in cui l’Eritrea diventò vittima del colonialismo italiano. In pochi giorni si è riusciti a umiliare centinaia di persone grazie alla strumentalizzazione di un evento drammatico, estirpandone simboli a proprio piacimento: primo su tutti, la carezza di un poliziotto sul volto di una rifugiata. L’immagine di quella carezza che è finita sulle prime pagine delle maggiori testate giornalistiche italiane ed estere riveste un ruolo estremamente iconografico e classista, mostrandoci un uomo bianco e una donna nera tra i quali vige un rapporto di potere diseguale. Un’immagine di violenza inaudita poiché guidata da un messaggio non proprio della verità, come ha dichiarato la stessa Genet, la donna della foto, 40 anni e una figlia in Sudan che non vede da tempo: ‘’la usano per mostrare la faccia bella di questa storia, ma la verità è che la polizia ci ha spruzzato l’acqua addosso. Siamo stati buttati via come una scarpa vecchia’’. Quello stesso poliziotto fu uno di quelli del Settimo Nucleo guidati da Vincenzo Canterini durante il G8 di Genova, più precisamente durante le irruzioni alla Diaz; Canterini, ex responsabile del reparto mobile di Roma, ha sostenuto rispetto al poliziotto di quell’immagine ‘’bene, anzi benissimo, si comportò all’interno di quella scuola che venimmo improvvisamente chiamati a sgomberare’’, ma sappiamo tutti dopo 16 anni di distanza cosa accadde quei giorni. Durante i fatti di Piazza Indipendenza molti hanno rivisto il fantasma di Genova, vivendo maggiormente una rabbia interminabile per tutti coloro che continuano a lottare.

L’abuso di potere compare nella distorsione della narrazione degli eventi che riguardano la Questura. La frase, di un altro poliziotto, che ha fatto scalpore, ‘’spaccategli un braccio’’, oltre ad essere stata generata da una mentalità violenta che vuole a tutti i costi essere messa in atto, solo, paradossalmente, quando entra in gioco la povertà, è stata anch’essa strumentalizzata dalle parole di Stefano Esposito, senatore del Partito Democratico, che ha pubblicato la trascrizione, a sua detta, originale, della registrazione integrale delle parole di quel poliziotto: ‘’dottore questi ci stendono, vede quanti sono? Noi siamo solo dieci e loro hanno bombole di gas e sanpietrini…’’; ‘’Ragazzi, lo dobbiamo fare, ce lo hanno ordinato e non possiamo tirarci indietro, quando saremo lì in mezzo saremmo soli, noi dieci contro loro cento. Il primo obiettivo è quello di portare a casa la nostra pelle e quella del nostro fratello nel casco accanto…’’. Queste parole, oltre ad essere chiaramente un paradosso, sono figlie di un ridicolo ed estremo giustificazionismo antropologicamente psicotico.

Avevamo davvero bisogno di Piazza Indipendenza? No, avevamo invece bisogno di una presa di coscienza più reale e decisa che mai, di una lotta concreta contro l’ipocrisia delle istituzioni e della disinformazione mediatica, di capire da che parte fosse quella legalità che in molti cercavano, di un grido di allarme contro la disumanità che questo paese sta coltivando, di più persone che credono al cambiamento e alla forza del singolo. Avevamo bisogno di molte più persone delle 5.000 che hanno protestato il 26/08/2017 a Piazza dell’Esquilino. Avevamo davvero bisogno della nostra città, quella solidale. Avevamo bisogno di eliminare l’odio, da molto prima; un odio parassita che si rifiuta di guardare.

‘’Semo romani tresteverini, semo migranti senza quatrini, er core nostro è na capanna…core sincero che nun te nganna…’’.

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zanzisap
2408 days ago
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